Terapie Forestali: facciamo chiarezza!

Intervista alla dott.sa Fiammetta Piras referente e coordinatore Comitato Tecnico Scientifico della rete TeFFIt (Terapie Forestali in Foreste Italiane)

Negli ultimi anni si è sentito sempre più parlare di Bagni di Foresta, Terapie Forestali, Immersioni in Foresta, Forest Theraphy, vi è stata una vera e propria esplosione sull’argomento e anche facendo una semplice ricerca su internet relativa a salute e foresta escono decine di articoli.

Ad oggi, quindi, quasi tutti abbiamo chiaro di che cosa si stia parlando.

Ma siamo sicuri che sia così?

Siamo sicuri che se vi dicessi che le Immersioni in Foresta e le Terapie Forestali non sono la stessa cosa voi mi rispondereste “si è vero sono molto differenti le due cose” ? Oppure che le Immersioni in Foresta non sono un trekking ma “qualcos’altro” voi mi confermereste con un “certo! Che domande!” ?

Se a queste domande, giustamente, si ha qualche dubbio sul rispondere, abbiamo l’opportunità di avere chiarimenti precisi e scientificamente validi grazie ad una intensa e corposa intervista rilasciata dalla dott.sa Fiammetta Piras referente e coordinatore Comitato Tecnico Scientifico della rete TeFFIt (Terapie Forestali in Foreste Italiane), Ideatrice e gestore del “Il Bosco di Puck”: Centro Green care e Terapie Forestali – Centro di Osservazione Sperimentale in convenzione con il Laboratorio di Ecologia Affettiva dell’Università della Valle d’Aosta (LEAF/UniVdA).

Foresta di Vallombrosa

Dott.ssa Piras durante questa tremenda pandemia da Covid-19 tutti noi abbiamo rivalutato la necessità di relazione con la natura, abbiamo riscoperto il passeggiare in foresta, in campagna, per sentieri abbiamo ritrovato percorsi a due passi da casa, si parla addirittura di “Terapie” forestali: quali sono i reali benefici degli ambienti naturali per la nostra salute?

Innanzitutto abbiamo benefici indiretti.

Negli ambienti urbani siamo esposti ai più svariati inquinanti: non solo lo smog, ma anche l’inquinamento da rumore, quello luminoso, ed è persino dannoso lo stile di vita al quale siamo spesso costretti, come la fretta, i troppi impegni, le scarse ore di sonno e riposo, e così via.

Questi sono tutti fattori che danneggiano la nostra salute e che, semplicemente, negli ambienti naturali sono assenti o vengono mitigati, così il nostro corpo e la nostra mente possono finalmente rigenerarsi.

D’altronde, il costante stress psicofisico, al quale attualmente siamo sottoposti, è ormai considerato un elemento comune a molte patologie, anche croniche, che ci affliggono, come l’ipertensione, il diabete, l’obesità, le malattie allergiche e autoimmuni, il cancro. Lo stress psicofisico eccessivo e costante crea uno stato di infiammazione cronica che contribuisce all’insorgere e al mantenersi di queste patologie, quindi il recupero da questo stress che si ottiene in Natura è già di per sé benefico.

Inoltre, negli ambienti naturali sono presenti elementi che, singolarmente o in modo combinato, hanno dimostrato di avere effetti specifici, ancora rigenerandoci, ma anche in relazione alla funzione cardiovascolare, immunitaria e neuroendocrina, oltre che alla sfera emotiva, cognitiva e sociale.

Naturalmente non si tratta di una panacea per tutti i mali, ma dipende piuttosto da chi fa cosa e dove.

Allora cominciamo intanto dalle Terapie Forestali: cosa sono esattamente?

Terapia Forestale” è semplicemente la traduzione italiana del termine Forest Theraphy.

Questo termine è stato formalmente definito nel 2019, nell’International Handbook of Forest Therapy. In questo Manuale Internazionale, numerosi ricercatori hanno riportato le osservazioni scientifiche raccolte in Oriente e in Occidente su svariate e innumerevoli attività salutari, svolte in ambienti naturali o a contatto con la natura, che comprendono ad esempio l’ortoterapia, la garden therapy, varie tipologie di esercizio fisico in parchi urbani, la frequentazione anche ricreativa di foreste dedicate, l’immersione in foreste selvatiche, e altre ancora.

In realtà, molte di queste attività erano già sviluppate e studiate con successo anche in Italia: ora hanno in qualche modo cambiato nome o, meglio, vengono presentate sotto la nuova definizione di “Terapia Forestale”, forse perché più accattivante.

Perché si chiamano “forestali” anche quando sono svolte in parchi urbani o giardini?

Perché comunemente in molti Stati, Italia compresa, si intende per foresta un terreno ricoperto almeno in parte da alberi, anche trapiantati o coltivati, e talvolta anche solo da arbusti. Quindi un parco urbano piuttosto che un orto botanico alberati possono rientrare in questa definizione.

Questo significa che un orto botanico con alberi piuttosto che una foresta di sequoie hanno gli stessi effetti sulla salute?

Ovviamente no.

Anzi, la mancanza di cura nel descrivere gli ambienti dove le diverse terapie sono state praticate e osservate è la maggior critica rivolta agli studi del passato. Attualmente persino i Governi chiedono ai ricercatori locali di verificare nelle foreste del proprio territorio gli effetti descritti negli studi internazionali. E’ quello che stanno facendo ad esempio il Canada, l’Australia ma anche la gran parte dei Paesi europei. La TeFFIT ha avviato la ricerca in tal senso sul territorio italiano.

Nessuna novità sotto il sole, dunque, ma solo un cambio di nome di attività efficaci ma consuete?

Verifiche scientifiche a parte, che consentiranno di comprendere cosa fa bene a chi e dove delle varie tipologie di attività proposte, consentendo di orientare le persone verso quelle individualmente più salutari, la vera novità sono forse le “immersioni in foresta”, traduzione italiana del termine giapponese Shinrin-Yoku, a sua volta tradotto in inglese come Forest Bathing: bagno di foresta.

Perché questa è una novità? Non si tratta semplicemente di una delle tante attività proponibili nel verde?

La novità consiste nel fatto che le immersioni in foresta NON prevedono la proposta di alcuna attività specifica ma solo di spendere del tempo in foresta, vagando tranquillamente al suo interno con i sensi aperti, per entrare in relazione con essa.

Anzi, Qing Li, il medico immunologo considerato il più grande studioso e divulgatore di questa antica pratica giapponese, nel suo libro e in gran parte dei suoi scritti, per prima cosa sottolinea che lo Shinrin Yoku (cito letteralmente) “non è una forma di esercizio fisico, un’escursione o una variante dello jogging: consiste semplicemente nell’entrare in contatto con la natura, nel connettersi ad essa attraverso le sensazioni fisiche”. Quindi non sono da considerare immersioni in foresta quelle che prevedono camminate varie, che siano atletiche, lente, consapevoli, con racchette da nordic walking, escursionistiche, e neppure esercizi fisici d’altro tipo e attività simili.

E non è neppure necessario un qualche impegno mentale perché, chiarisce ancora il dott Li, l’attenzione involontaria non richiede alcuno sforzo mentale, viene semplicemente naturale. Questo è il tipo di attenzione che usiamo quando siamo nella natura. Le immagini e i suoni rilassanti danno una pausa alle nostre risorse mentali. Consentono alla nostra mente di vagare e di riflettere, ripristinando così la nostra capacità di pensare in modo più chiaro.

Ma questo esclude allora anche la mindfulness o la psicoterapia, come si legge in molte proposte, alcune delle quali sembrano anche molto accreditate?

Tecniche e terapie psicologiche proposte in ambienti naturali rientrano semplicemente nelle Terapie Forestali e non nelle Immersioni in Foresta. In questo caso sono proposte da terapisti abilitati, che ne conoscono indicazioni e controindicazioni, e sono in grado di gestire eventuali disagi che dovessero emergere nelle persone durante la pratica.

Tuttavia, la tendenza scientifica attuale è quella di considerare meglio le necessità organizzative, di setting e di privacy richieste da queste pratiche, tanto che, pur essendo riconosciuti i benefici psicologici offerti dagli ambienti naturali, alcuni ricercatori si spingono a raccomandare di “portare la Natura dentro” ai setting terapeutici o di pratica personale, piuttosto che svolgerli all’aperto, in particolare nelle foreste più naturali o selvatiche.

Eppure la mindfulness viene proposta nelle foreste incontaminate proprio come tecnica per diventare più recettivi dal punto di vista sensoriale (anche lei parlava di “sensi aperti”) o per sommare i benefici della mindfulness con quelli della foresta. Come risolve questa contraddizione?

Per quanto riguarda i “sensi aperti”, non si tratta certamente di diventare campioni della discriminazione sensoriale.

La questione evidenziata dal dott. Li è piuttosto quella di usare la percezione per entrare in relazione con la foresta, apprezzarne le diverse forme di vita e goderne.

Ad esempio, se una persona teme la presenza di animali pericolosi, distinguere sempre più fruscii, calpestii di foglie secche, spostamenti di fronde o di rami e altro, potrebbe metterla in apprensione ancora maggiore, invece di farla sentire meglio e più rilassata.

Si tratta semmai di sostenerla, accompagnandola inizialmente in zone ricche di sonorità più tranquillizzanti, ad esempio di uccelli con canti melodiosi, e in ambienti più aperti, così che possa non sentirsi intrappolata in un fitto sottobosco, che nel suo immaginario può rappresentare il potenziale rifugio di pericolosi predatori. Ma, al contrario, una persona che si sente già a suo agio in una foresta, potrebbe desiderare un ambiente anche sensoriale più vario e complesso, ed essere attratta da zone più fitte, ombrose e persino intricate, comprese quelle ricche di sottobosco.

E del sommare i benefici della mindfulness con quelli della foresta cosa ne dice? Non è in effetti un vantaggio?

Mindfulness significa semplicemente consapevolezza, ed è indubbio che è fondamentale sviluppare una progressiva consapevolezza delle proprie percezioni, di come il proprio organismo, mente e corpo, reagisce alla foresta e di come la foresta reagisce alle proprie azioni.

Tuttavia, la pratica della mindfulness e la consapevolezza che si sviluppa in foresta hanno obiettivi diversi e persino meccanismi d’azione differenti, tanto che possono persino contrastarsi a vicenda.

Quello che i ricercatori osservano è che, se ci si limita a passeggiare in una foresta, senza fare nulla di specifico, la mente comincia a vagare. Questo fenomeno viene proprio definito mind wandering: vagabondaggio della mente. Nel quotidiano, il vagare della mente può essere fonte di distrazione, ad esempio nella guida, oppure insistere su un disagio personale o un tema specifico, trasformandosi in un rimuginare dannoso e stancante. Ma il vagare sano della mente è invece indispensabile per sviluppare la flessibilità mentale, fare nuove associazioni di idee, anche per pianificare meglio il proprio futuro e persino per essere più creativi.

Nella foresta si osserva uno spontaneo alternarsi tra il vagare della mente, mind wandering, orientato internamente, e il fascino morbido stimolato dalla natura, fascination, orientato esternamente. Questo fenomeno spontaneo, se lasciato libero, conserva i benefici del rilassamento e della rigenerazione psicofisica, ma sostiene anche lo sviluppo di idee e soluzioni nuove e creative, persino per la propria salute, bloccando al contempo il rimuginare negativo.

Le tecniche di mindfulness hanno invece obiettivi differenti, dove la richiesta di portare l’attenzione su qualcosa di specifico, ad esempio il respiro, ostacola tanto il mind wandering quanto la fascinazione della foresta. Al contrario, il vagare della mente e la fascinazione possono distrarre l’attenzione consapevole richiesta dalla mindfulness. Questo è quanto viene osservato anche negli studi comparativi più recenti e scientificamente accurati che confrontano le due pratiche.

Ovviamente, può essere invece una strategia vantaggiosa praticare separatamente la mindfulness in privato o in setting clinici adeguati, e avvalersi dei benefici mentali indotti dal mind wandering e dalla fascinazione in foresta, ma in momenti diversi.

Lei sta dicendo che semplicemente vagare, mente e corpo, in una foresta, senza impegnarsi in altro, ci rilassa, ci rigenera, più altri vantaggi psicologici. Ma come può migliorare anche il benessere fisico senza almeno una qualche attività salutare, ad esempio una passeggiata magari lenta ma almeno lunga, o qualche esercizio di respirazione profonda, o altro?

Fa bene anche alla salute fisica quando la foresta dove si va a “vagare” con la mente e con il corpo è davvero ricca di biodiversità, sana e, ovviamente, priva di inquinanti, quindi satura di elementi viventi e dei loro prodotti in buon equilibrio.

Per quanto possa sembrare sorprendente, e per qualcuno persino un po’ inquietante, appena entriamo in un ecosistema forestale sano e complesso, veniamo immediatamente avvolti da tutta questa vita esuberante: microbi, pollini, spore, bioprodotti volatili si appoggiano sulla nostra pelle, entrano in bocca, nel naso, nelle orecchie, e raggiungono i nostri organi interni interagendo con essi.

Nello stesso tempo, un’infinità di stimoli sensoriali sollecitano i nostri sensi, suscitando reazioni positive anche nelle nostre funzioni: nel sistema nervoso, immunitario, metabolico e persino nell’apparato cardiocircolatorio, che rispondo rapidamente, riequilibrandosi.

Sembra davvero incredibile: come può succedere una cosa simile? E perché questo non può succedere anche in un bel parco urbano?

Molti scienziati ritengono che l’essere umano risponda così prontamente e positivamente alla Natura semplicemente perché è in Natura che l’organismo umano si è evoluto e, che piaccia o meno, perché anche l’essere umano è Natura.

Si tratterebbe dunque di un fisiologico “ritorno a casa” del nostro organismo, dove siamo finalmente circondati dagli stimoli per i quali abbiamo risposte innate ed altre per le quali siamo comunque predisposti.

L’organismo umano è sicuramente più in difficoltà a dover reagire prontamente al traffico, alla luce dei computer, o alle sostanze chimiche artificiali. Tutti stimoli che non appartengono al bagaglio evolutivo umano ma sono emersi in massa solo negli ultimi decenni.

Tuttavia, alcuni elementi delle foreste, che sono positivi e benefici nelle foreste selvatiche, non lo sono nelle foreste urbane.

Ad esempio, alcuni fitoncidi degli alberi, prodotti volatili emessi dalle piante, che sappiamo essere molto benefici per l’essere umano e che vengono appositamente ricercati nelle foreste selvatiche, negli ambienti inquinati urbani sono assolutamente evitati perché hanno un effetto paradosso, legandosi ad alcuni inquinanti e moltiplicando i loro danni per la salute.

Al contrario, se sappiamo che vivere a contatto con una ricca biodiversità di microbi e di specie animali e vegetali previene molte malattie allergiche e disfunzioni immunitarie, se un soggetto ormai molto sensibile ai pollini si reca in una foresta selvatica, ha molte più probabilità di incontrarli e di manifestare una crisi allergica. In città questa evenienza può essere gestita scegliendo alberi adatti a tutti, in foreste selvatiche è necessaria invece una progressiva e accurata desensibilizzazione.

I risultati positivi di quest’ultima pratica si sono visti ad esempio in un progetto decennale finlandese, ma di certo non può essere improvvisata.

Se per trarre beneficio dalle foreste “selvatiche”, cioè ricche di biodiversità e non inquinate, è quindi sufficiente vagare al loro interno con la mente e con il corpo, mantenendo soltanto i sensi aperti per relazionarsi con esse, ha un qualche senso farlo con un Conduttore? Che ruolo può avere il Conduttore se, per definizione, non deve proporre nessuna attività e, anzi, se lo fa rischia di ostacolare i benefici della foresta?

Ci sono alcune ottime ragioni per essere accompagnati da un Conduttore professionale.

Una la racconto con l’esempio di uno studio svedese.

Per verificare quanto ho descritto prima, ad un gruppo di pazienti, in terapia per un grave disturbo da esaurimento, è stato prescritto di recarsi due volte alla settimana in una foresta, per un periodo di tre mesi.

I pazienti potevano scegliere tra otto foreste con caratteristiche diverse.

Ai partecipanti è stato chiesto di trascorrere le due ore prescritte in solitudine, pace e tranquillità, e di essere fisicamente attivi solo se sentivano freddo. Ecco cosa è accaduto.

Inizialmente, dover trascorrere due ore in solitudine in una foresta, senza fare nulla, ha causato confusione, stress e preoccupazione in alcuni pazienti.

Qualcuno si è anche sentito frustrato per essere lasciato solo in un ambiente forestale sconosciuto, anche se scelto personalmente. Si è sentito insicuro in un luogo insicuro, con la paura di animali “pericolosi”, di perdersi nella foresta, di soffrire il freddo e la pioggia nei giorni di maltempo, di restare bloccato nella neve alta.

Ma via via che familiarizzavano con le foreste e sceglievano sempre più consapevolmente il loro “luogo preferito”, i pazienti sono stati finalmente in grado di rilassarsi e di trovare la pace della mente.

Solo allora il pensiero si è fatto positivamente riflessivo nei confronti della propria situazione di vita e li ha spinti a cambiarla in meglio. Ed è aumentata anche l’autostima e la fiducia in se stessi. Così non vedevano l’ora di poter tornare ancora nel loro luogo preferito in foresta per riposarsi, stare meglio e avere idee nuove e positive.

Ecco, frustrazione per il “non fare nulla per due ore”, ritrovarsi in un luogo sconosciuto, paure nei confronti della vita della foresta, sono tutte situazioni iniziali che possono spingere all’abbandono di questa esperienza così benefica e che possono essere prevenute da una Conduzione professionale esperta.

In effetti sembra ragionevole. Ma quindi il Conduttore serve solo all’inizio e basta la sua sola presenza?

No per entrambe le domande.

Cominciamo dal ruolo, per il quale sono necessarie davvero solide competenze, sia per quanto riguarda le dinamiche degli ecosistemi forestali, sia sui meccanismi d’azione che portano ai benefici delle immersioni in foresta, sia su almeno alcune questioni di base riguardanti il benessere psicofisico umano e le sue alterazioni dovute a disagi o patologie.

Con queste competenze e con un’ottima conoscenza della foresta dove opera, il Conduttore può quindi accompagnare il gruppo attraverso i percorsi che sono di volta in volta più adatti agli utenti.

Ad esempio, potrebbe doverli inizialmente accompagnare in luoghi più accoglienti e confortevoli affinché si sentano a loro agio, quindi in ambienti via via più ricchi di stimoli sensoriali perché possano percepire sempre meglio la ricchezza di vita e di biodiversità della foresta, e poi ancora in una varietà di habitat al suo interno perché ciascuno possa percepirne i diversi effetti su di sé e imparare a scegliere quello più adatto alla sua situazione attuale di salute, al suo umore o al suo stato d’animo.

Un Conduttore esperto è in grado di accompagnare il suo gruppo e di offrire indicazioni puntuali ma discrete in modo che le persone traggano il massimo giovamento dall’esperienza e sviluppino nuove capacità.

Al contempo è in grado di tutelare le eventuali fragilità della foresta.

Poiché, però, i benefici delle foreste richiedono una frequentazione costante, circa due ore alla settimana, le persone dovranno poi avere almeno un bosco accessibile e sano nelle vicinanze della loro abitazione, dove poter tornare con regolarità, anche in solitudine.

Tuttavia, potranno desiderare di fare esperienze anche in foreste diverse o più sane e rigogliose, magari durante una vacanza. In questo caso, si è visto che almeno 72 ore sono il tempo ideale per trarre benefici psicofisici sufficientemente duraturi. Ecco allora che la Conduzione professionale torna ad essere fondamentale perché anche queste esperienze occasionali o periodiche, in foreste particolari, risultino piacevoli e salutari.

In cosa consistono esattamente le competenze che devono avere i Conduttori, e quali strumenti si può offrire loro perché non risultino né inutili né intralcianti?

Come abbiamo visto, devono innanzitutto avere conoscenze di base interdisciplinari sia nell’ambito della salute psicofisica umana sia nell’ambito delle foreste, della loro biodiversità e su come si sviluppa la relazione uomo-natura. Non serve invece che abbiano conoscenze specifiche di terapie mediche, tecniche psicologiche, esercizio fisico o altro, perché non devono proporli.

Ma hanno anche bisogno di strumenti applicativi e di monitoraggio precisi, che consentano loro la conduzione in foresta di volta in volta adatta ai frequentatori, favorendoli nel percorso che li aiuta dapprima a relazionarsi con la foresta, percependola e riuscendo a muoversi in essa, compresi i suoi diversi ambienti interni, in modo sempre più benefico per sé e per la foresta stessa. Conoscendo bene la foresta entro la quale operano, anche nelle sue dinamiche ad esempio stagionali, hanno poi bisogno di strumenti applicativi e di monitoraggio che consentano loro di accompagnare le persone verso gli attrattori e negli habitat al suo interno di volta in volta più adatti alle specifiche esigenze dei singoli utenti e dei gruppi.

Questi strumenti applicativi e di monitoraggio sono quelli ai quali la TeFFIt dedica la massima attenzione, e che sviluppa e verifica con il contributo attivo dei Conduttori iscritti al suo Registro. Inoltre, al fine di operare in trasparenza, con modalità comuni e per facilitare il dialogo e il confronto costruttivo tra tutti i soci, la TeFFit sviluppa protocolli che definiscono il modus operandi per specifici campi di applicazione.

Mi sembra di capire che il Conduttore di immersioni in foresta debba avere tante, anche se diverse, competenze quante ad esempio quelle di una Guida ambientale o naturalistica, ma che, contrariamente a queste, debba farsi notare il meno possibile durante il suo lavoro, per non attrarre a sé le persone invece di aiutarle a relazionarsi con la foresta. Non deve essere umanamente e professionalmente facile, anzi, può risultare molto frustrante, non è così?

Sì, è spesso così, almeno all’inizio. Il timore iniziale di alcuni Conduttori di Immersioni in Foresta di essere mal giudicati perché non propongono nessuna attività specificatamente strutturata o nuova e accattivante, rispecchia la frustrazione iniziale delle persone per il non dover far nulla in foresta, come abbiamo visto nello studio svedese.

Questa è forse una delle più grandi differenze tra la cultura orientale, dove le immersioni in foresta sono nate, e quella occidentale. In Oriente sono abituati a pensare che il tempo “vuoto” sia il migliore per poter essere riempito da qualcosa di nuovo e benefico, per noi occidentali non far niente è noioso e significa non produrre né ottenere nulla.

Per noi, andare in un bosco significa almeno passeggiare, raccogliere funghi e more, magari fare un pic nic o un bagno nel torrente. Ma non dobbiamo acquisire una cultura orientale per godere delle foreste: con l’esperienza e l’accompagnamento competente dei Conduttori professionali, sono le foreste ad agire per convincerci ben presto quanto sia piacevole, costruttivo e benefico spendere del tempo con loro, con-templarle, vagando al loro interno con il corpo e con la mente, esplorandone i segnali di vita con i propri sensi e sviluppando la capacità di reagire e di rispondere ad essi. Quando si apre il dialogo con la foresta, quando il nostro rapporto con essa diventa relazione, il tempo calmo e attento che le dedichiamo sembra volare via e diventa sempre più grande il desiderio di restare ancora o di tornare presto. La relazione con le foreste diventa allora molto di più di un semplice tornarci per ottenere salute fisica e mentale.

E così chiudiamo il cerchio con quanto detto inizialmente: l’essere umano sta bene nella Natura perché è a sua volta Natura. E le foreste gli permettono di ricordarlo.

Un’intervista molto corposa è vero, ma in un mondo in cui si sintetizza quasi in maniera estrema i contenuti andando spesso a banalizzarli è utile avere momenti in cui una persona competente in materia possa esprimere senza vincoli di lunghezza di testo argomenti tanto importanti quanto complessi come le Immersioni in Foresta. Grazie dott.ssa Piras, per l’importante lavoro che stai e che state facendo, buon lavoro!

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